Murillo davanti e dietro

Il Redentore, incoronato di spine e avvolto in un manto grigio-bruno annodato al centro a comporre una sorta di decolleté tra il sacro e il profano, volge gli occhi spalancati e lucidi alla sua destra e verso l’alto, come a cercare il conforto della Madre, raffigurata in un probabile pendant (al momento ignoto), affinché gli dia la forza di portare a compimento il sacrificio chiesto dal Padre dall’Alto dei Cieli. Un’immagine bella, coinvolgente nella sua semplicità, capace di ispirare devozione senza essere zuccherosa, un Cristo - Uomo dei Dolori (1664-1665 ca., collezione privata, olio su tela, cm 53 x 45), di fronte al quale un nome viene subito in mente: Murillo. E Murillo è affermato a chiare lettere (è il caso di dirlo) anche dietro il quadro, in una scritta incisa sull’antico telaio ligneo (“BARTOLOME ESTEBAN MURILLO”), attestazione che ispira fiducia per una serie di motivi storici, stilistici e tecnici, che poniamo al vaglio degli esperti e degli addetti ai lavori.

Cominciamo proprio dal telaio, la cui analisi spettroscopica[1] ha indicato come probabile datazione l’ultimo quarto del Seicento, per cui si può presumere che esso sia quello originale (l’opera è stata rintelata nell’Ottocento, ma, forse a causa dell’importante iscrizione, il telaio non è stato sostituito), attribuendo il dipinto al maestro di Siviglia (1617-1682), che in quel tempo – e certo non solo per i proverbiali quadri di monelli di strada, gli “scugnizzi murilliani” – viaggiava sulle ali della stima e della notorietà, di pubblico e collezionistiche e anche al di fuori dei confini spagnoli, specialmente in Inghilterra, dove nel Settecento sfoggiare in salone un Murillo era per ogni nobile un must (ancora oggi tre istituzioni pubbliche londinesi ne detengono venti pezzi: sette la National Gallery, otto la Wallace Collection, cinque la Dulwich Picture Gallery). L’apprezzamento sarebbe continuato per buona parte dell’Ottocento, subendo poi un arresto di circa un secolo, nel periodo dominato dal Romanticismo[2], fino alla riscoperta, matura perché frutto di muniti studi, della critica tardonovecentesca e attuale[3].

Un elemento intrigante della scritta è che alla seconda “E” di “ESTEBAN” è sovrapposta quella che sembra una “f”, ovvia abbreviazione di “fecit”, riproponendo la situazione esistente in un’altra scritta esibita, questa volta sul fronte, da un quadro del pittore andaluso, il famoso Autoritratto di collezione statunitense (a lungo nella raccolta Cook di Richmond), del 1650-55 [4], facendo cautamente formulare l’ipotesi, viste le somiglianze dei lineamenti, segnatamente il naso sottile e diritto e le labbra carnose, che anche il nostro dipinto sia un autoritratto, però idealizzato (e ringiovanito, visto che tra i due pezzi dovrebbe correre una decina di anni), una specie di “autoritratto in veste di Uomo dei Dolori”. Tale identificazione potrebbe trovare una giustificazione nella scomparsa della moglie, avvenuta il 31 dicembre 1663, proprio il giorno del quarantaseiesimo compleanno del nostro artista – che peraltro era già incorso nella triste sorte di seppellire alcuni dei figli –, e magari un’occasione nella sua ammissione, nel giugno 1665, nella confraternita della Santa Caridad (vedi Cordero, Murillo, Milano, 2005, p. 70), circoscrivendo così al 1664-1665 la cronologia dell’opera, dunque nel cuore del decennio dove “vengono prodotte le sue cose migliori” (Juan de la Encina, La pittura spagnola, 1951, ed. it., Milano, 1961, p. 154)[5].

Come si è visto, il dipinto in studio dovrebbe aver fatto coppia con una Mater Dolorosa (ancora da reperire), bissando la situazione dei due quadri del museo del Prado, tra l’altro di dimensioni simili (cm 52 x 41 ciascuno) e suppergiù dello stesso periodo (vengono datati al 1668-1670) del nostro, ma orientati in senso opposto, con l’Ecce Homo che guarda a destra e la Madonna a sinistra, sicché presumibilmente, nella nostra accoppiata devozionale, sulla destra vi era il Cristo, rimirante la Madre, la quale, posta a sinistra, guardava verso il Figlio alla sua destra [6]. Come è noto, esistono altre coppie del genere create da Murillo soprattutto dal 1665 al 1670, tra cui quelle passate in asta nel 2013 e nel 2015 presso Sotheby’s Londra (cm 67 x 50,5 – vedi I. Cano Rivero, in J. Eguiguren, a cura di, Spanish Old Master Paintings, 1500-1700, 2018, p. 145), quella nel 2017 presso la galleria Caylus di Madrid (cm 52 x 40, prima in Russia e in Olanda) e quella del duca di Villahermosa a Pedrosa (v. E. Valdivieso, Murillo. Catalogo razonado de pinturas, Madrid, 2010), nonché quelle segnalate da Angulo Iñíguez (Murillo: su vida, su arte, su obra, 3 voll., Madrid, 1981, nn. 251-252 e nn. 255-258). In effetti, riguardo le varie versioni dell’Ecce Homo, Valdivieso precisa che “Es una obra que, generalmente, iba en pareja con una Virgen Dolorosa con la que establece un dialogo. Un juego de correspondencia a través de los gestos y las miradas”, e, viceversa, come rileva Miguel Cordero (cit., p. 116), “la Mater Dolorosa funge spesso da pendant all’Ecce Homo”, un abbinamento tipico dell’iconografia spagnola barocca. Trovare il pendant del nostro quadro sarebbe certamente interessante.

In realtà, lo si è osservato, più che un Ecce Homo il nostro quadro sarebbe classificabile come Uomo dei Dolori, data l’assenza della canna-scettro e dato lo sguardo volto all’insù, come ad accettare la diretta volontà del Padre (immagine ancora più struggente nella plausibile ipotesi che vede l’artista lasciato solo a sopportare la sofferenza  per la perdita della giovane consorte), di contro allo sguardo rassegnato indirizzato in basso tipico del Messia che viene mostrato al popolo, iconografia – spesso con la testa del Salvatore circonfusa da un leggero alone di luce come nel quadro in oggetto – a mezzo busto o a figura intera ricorrente nella produzione murillesca[7], basti citare l’esemplare fino al 2005 in raccolta Cook a Richmond Hill (Londra – cm 63 x 53, 1665-1670 ca.), poi Colomer Collection, battuto all’asta nel luglio 2017 da Sotheby’s Londra per circa 2,5 milioni di sterline, quello del Museum of Art di El Paso (Texas, cm 85,7 x 78,7, 1675 ca., un tempo nella cattedrale di Siviglia), che ha un gemello nella redazione del Museo de Bellas Artes di Cadice (cm 82 x 67, dal convento dei cappuccini), quello del Museo di Murcia, quello venduto da Coll & Cortés nel 2007, quello del Soumaya Museum di Mexico City, a cui si aggiunge la redazione già della Dudley Wallis Collection (cm 56 x 44, 1675 ca.), passata nel 2017 dalla Granados Collection di Madrid a una raccolta privata spagnola (cfr. Cano Rivero, cit., 2018), senza contare i dipinti incasellati come repliche in collaborazione o copie di bottega o di seguaci come l’esemplare in deposito in una chiesa di Bristol e quello della August Heckscher Collection di New York (cm 39 x 29), di cui nel 2013 è stata presentata come originale a Guadix (Granada) una versione di maggiori dimensioni (cm 72 x 54,5), che però Valdivieso ha giudicato replica di bottega, spiegando che le repliche sono opere che escono dall’atelier del maestro, eseguite dagli allievi e alle quali egli dava gli ultimi ritocchi per imprimervi il suo sigillo personale[8].

È comunque verosimile che Murillo, sempre sulla scorta delle opere di Tiziano raffiguranti Cristo a mezza figura ammirate nelle collezioni reali di Madrid[9], abbia messo a punto anche una iconografia del tipo di quella del quadro qui in questione, come del resto risulta in letteratura. Nel suo monumentale e ancora utile lavoro di ricerca e classificazione (Velazquez and Murillo, New York - London, 1883), Charles Curtis segnalava al numero 208, come di proprietà Ashburton a Londra, acquistato nel 1815 presso il generale Sebastiani (proveniente probabilmente dalle requisizioni napoleoniche in Spagna), un quadro molto simile al nostro, caratterizzato da un Cristo con la corona di spine, in figura a mezzo busto, con manto bruno e occhi rivolti in alto (i punti in comune non possono comunque portare all’identificazione totale per via delle maggiori dimensioni, cm 75 x 55, a meno che nella misurazione non sia compresa la cornice).

Altri Redentori del Murillo con gli occhi levati al cielo sono stati segnalati nella cappella del Pilar (v. Curtis, cit., 1883, n. 206) e nella vendita Aguado del 1843 che riuniva la bellezza di oltre quaranta quadri del maestro, tra cui appunto un busto di Cristo, frontale, coronato di spine, con gli occhi all’insù (ibidem, n. 210l) che, essendo di formato circolare, non può identificarsi con il nostro quadro ma può esserne una replica (autografa o di bottega). Vi è poi l’esemplare sempre dal Curtis rubricato al numero 200 in raccolta Cartwright in Inghilterra (cm 35 x 25 ca.), nel 1991 andata in asta da Christie’s a Londra, che Angulo sarebbe incline a ritenere originale.

Dal punto di vista stilistico la datazione proposta (1664-1665) è coerente con la nota suddivisione, istituita nel 1800 dal Ceán Bermúdez e ripresa da molta critica, della maniera del Murillo in tre periodi, cioè l’“estilo frio” (freddo), dei primi anni (1640-1655 ca.), caratterizzato dalla solidità dei volumi e dei toni, dai chiaroscuri netti e dai cromatismi ristretti propri del naturalismo, l’“estilo calido” (caldo), della fase mediana (1655-1665), con una composizione più movimentata e una tavolozza più ricca, e l’“estilo vaporoso”, della fase tarda (1665-1682 ca.), contraddistinta da una pennellata più libera, morbida e sfumata, con effetti quasi atmosferici, una scansione cronologica che, se certamente non deve essere presa come verità assoluta, tuttavia, con le dovute cautele e gli opportuni adeguamenti, resta complessivamente valida: “It is simplicistic and perhaps amusing; but it is not incorrect, only unrefined”, scrive infatti lo specialista Jonathan Brown, tanto da estenderla dai dipinti alla produzione grafica dell’artista (vedi Murillo & His Drawings, Princeton, New Jersey, 1976, p. 20). Il quadro di raccolta privata qui in hand si situerebbe giusto al passaggio dal secondo al terzo stile, quando, come afferma lo stesso Brown (ibidem), Murillo “had discovered a way to express sincere ed exalted religious emotions throughs the use of warm, soft colors and attractive human types. By intensifying these elements of his style in later years, he became a great master of intimite religious painting”. Il che sembra appunto essere il caso del nostro Uomo dei Dolori.

Quest’ultimo ricorda il volto di un altro Nazareno di quegli anni, quello del Cristo sulla croce del Museum of Arts di San Diego (già nella Galerie Czernin di Vienna, 1668-1670 ca.), a cui, e la cosa pare incoraggiante, è stato associato un disegno (Princeton University, The Art Museum, mm 335 x 236, 1665-1670, cfr. Brown, cit., 1976, n. 55) dove il viso del Redentore, che presenta la stessa espressione dolente e supplichevole, essendo in controparte rispetto al dipinto finisce per essere nella stessa posa del quadro in discussione. Ma sovviene anche l’Unigenito della Resurrezione dell’Accademia di San Fernando a Madrid (1555 ca.), specie l’inquadratura, il cerchio di luce e la struttura chiaroscurata del collo, come pure il viso del protagonista del San Giovanni Battista eseguito intorno al 1665-1667 per la chiesa dei Cappuccini di Siviglia e oggi al Museo de Bellas Artes della stessa città ( v. Gaya Nuño, cit., 1978, n. 112), al quale si può aggiungere un altro Battista attribuito al Murillo, quello, appartenuto al pittore Gainsborough, dal 1924 alla National Gallery di Londra su lascito di Ludwig Mond (ibidem, n. 328), per tacere delle molte facce estatiche di cui è disseminata la produzione murillesca, specie di Vergini (le varie Immacolate sfornate negli anni) e santi, si pensi al San Francesco Saverio del Wadsworth Atheneum di Hartford, (1670 ca.), al San Ferdinando della cattedrale di Siviglia (1671) e alla Santa Maria Maddalena rinuncia alla vita mondana del Virginia Museum di Richmond (di cui esiste un bozzetto – ubicazione sconosciuta, già collezione J.C. Robinson – firmato “Murillo fc.”, v. Brown, cit., n. 18), che in verità risale al 1652 circa ma costituisce un precedente puntuale dal punto di vista non solo dell’espressione facciale ma anche della disposizione del panneggio, a confezionare un’identica scollatura che lascia scoperta la spalla destra.

Nell’ambito dei disegni, citiamo, per i confronti, il San Francesco inginocchiato della collezione madrilena de Alcubierre (mm 261 x 200, cfr. Brown, cit., n. 78), connesso alla figura del santo nella Madonna con il Bambino e santi della Wallace Collection di Londra (1675 ca.), e il San Pietro penitente del British Museum di Londra (mm 186 x 152, ibidem, n. 86), collegato al dipinto fatto tra il 1665 e il 1674 per l’Hospital de Venerables Sacerdotes di Siviglia di recente riapparso ed esposto nel 2012-2013 a Madrid, Siviglia e Londra (dal 2005 in raccolta privata dopo essere passato nella collezione Townsend a Newick, Sussex, cm 212 x 155, altre due versioni più piccole in collezione privata a Parigi e nel Museo di Belle Arti di Bilbao).

Punti di contatto, non solo formali, vi sono inoltre con un’altra Maddalena, la Maddalena penitente del Wallraf-Richartz Museum di Colonia (anche di essa si conserva un disegno preliminare – Madrid, collezione privata, poi andato in asta – firmato “Murillo fe”, ibidem, n. 31), che è del 1665-1670 e che proviene dal nucleo di dipinti commissionati dal mercante genovese residente a Cadice Giovanni Bielato e dopo la sua morte riuniti nel convento dei Cappuccini di Genova, finendo dispersi all’inizio dell’Ottocento (cfr. R. Japon, a cura di, Bartolomé Esteban Murillo y la copia pictorica, Granada, 2018, p. 23, e Angulo, cit., 1981, vol. II, pp. 102-103), tenendo presente che nel territorio ligure è transitato il nostro quadro prima di pervenire all’attuale proprietà, per cui si potrebbe azzardare un percorso creativo e collezionistico, se non comune, almeno simile per certi tratti.

Riguardo la provenienza, occorre comunque segnalare che sul verso della tela, rinnovata con la rintelatura effettuata tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando il quadro era di proprietà del duca José Antonio Azlor de Aragon y Urtado de Zaldivar, della casata dei Villahermosa, compaiono delle sigle, che sembra di poter leggere come “G” “Y” “V”, dove la “G” significherebbe Guillamas, il cognome della moglie del duca (il quale avrebbe intestato alla consorte il quadro per toglierlo dall’asse ereditario), la “Y” alla tradizionale congiunzione spagnola che lega le generalità familiari, e la “V” proprio all’ascendenza Villahermosa[10].

Sul versante della tecnica pittorica, il nostro Cristo dei Dolori è compatibile con la prassi murillesca, come è conosciuta nella letteratura critica del passato e recente.

Già nel 1884 (Murillo, Barcelona), l’Alfonso scriveva che “Murillo non è tanto avaro nello stendere il colore quanto lo furono Velàzquez e Goya, che spesse volte lasciarono tratti di tela scoperta e la cui pennellata si può apprezzare solamente a distanza [...] Di rado impiegava note di colore acute e decise; di solito si serviva di ocre, di lacche e di combinazioni di bianco, nero e rosso”. Qualche anno dopo il Lafond (Murillo, 1909), sempre a proposito della tecnica, rilevava che “Nella seconda parte della sua vita divenne superbo, d’una flessibilità squisita, d’una abilità consumata, fluido, trasparente, ardito, prestigioso, d’una sostanza impareggiabile. Il tono è sempre fresco e raggiante, pittoresco e ricco”. Più di recente il Guinard e il Baticle (Histoire de la peinture espagnole, 1950) osservavano che “L’esame attento della tecnica usata prova che Murillo costruiva prima i suoi modelli in ossa, muscoli e carne, seguendo i più accorti principi ribereschi, e poi, con l’aiuto di un pennello duro, sfumava le forme una volta che il dipinto era terminato, ricoprendo così di un velo poetico una solida realtà”, e il Lafuente Ferrari (Breve historia de la pintura española, 1953) sottolineava “quella sua tecnica morbida, vaporosa e avvolgente, senza durezza e senza violenza di rilievo che erano estranee al suo mondo”, biasimando però “le evidenti trascuratezze nel disegno”, il che, oltre a non sembrare esatto, sorprende assai per un pittore che gli studi più recenti hanno scoperto essere un valente disegnatore, tanto da fondare nel 1660 la prima Accademia del disegno di Siviglia (si veda Brown, cit., 1976, pp. 44-48). Il disegno era proprio la prima tappa del suo percorso esecutivo, che prevedeva degli iniziali schizzi, più o meno completi e dettagliati, con le linee essenziali della composizione o di una sua parte, seguiti, in alcuni casi, dalla realizzazione di un bozzetto a olio (una sorta di quadro in miniatura), sfociando infine nella vera e propria stesura dell’opera, che comunque poteva contenere anche dei cambiamenti rispetto ai disegni o ai bozzetti a olio[11]. In ogni caso, l’artista non ricorreva al metodo dei cartoni preparatori da trasferire sulla tela, e tutto porta a dire che, come nota Muirne Lydon (in Murillo, Prodigal Son Restored, 2020, p. 43), egli lavorava “freely, alla prima, with a specific and planned composition in mind”. Sempre Lydon (ibidem) spiega che Murillo usava solitamente delle tele relativamente economiche, con due tipi di armatura, ortogonale e saia, su cui stendeva in due strati un’imprimitura bruna e grigia, piuttosto luminosa, a base di terre, nero e calcite, che poteva servire da mezzo tono della composizione, specie nella resa degli incarnati, mentre la stesura pittorica comportava due strati di colore nei lavori giovanili, strati che aumentavano di numero con il passare degli anni e con un maggior ricorso alle velature e alla tecnica wet-on-wet, un approccio sfociato nel menzionato estilo vaporoso, con pennellate più lisce e vellutate rispetto a quelle più corpose e precise della fase giovanile. Murillo is famed for this technique – afferma Lydon (ibidem, 2020, p. 44) – It is one he perfected in his later period with its incredible nuances of colour and light”.

Siamo nel periodo della maturità, quello nel quale, come dice Raffaello Causa (Murillo, collana “I maestri del colore”, Milano, 1964), “la grafia si è fatta più agile e corsiva perdendo il segno un po’ metallico e rigido delle cose giovanili; e una tavolozza fluida e lievitante, tutta intrisa di luce, ha sostituito i toni aspri e metallici della prima fase dell’artista”.

L’esecuzione del nostro quadro richiama quella dell’Ecce Homo già Dudley Wallis Collection (tra l’altro, è quasi come se fosse stato usato lo stesso modello o lo stesso disegno), di cui sono stati evidenziati (v. Cano Rivero, cit., 2018, pp. 152-155) l’aspetto intimo ed emozionale, la tecnica particolarmente luminosa e vaporosa, con leggerissime, soffici e quasi trasparenti pennellate nelle ombre che sono distribuite sulla faccia e sul torso, come pure il nodo che attira lo sguardo dell’osservatore e il fondo scuro che contrasta decisamente con la luminosità della composizione, mentre la pennellata è carezzevole, particolarmente trasparente in alcuni elementi e la figura appare quasi eterea emergendo dal fondo buio. Un’opera che, indagata in laboratorio, ha mostrato un’imprimitura bruna a base di terre (“terra di Siviglia”) e con l’aggiunta di biacca per una maggiore luminosità, tracce di un disegno sottostante, con piccoli tratti a delineare alcuni dettagli, una stesura pittorica rapida, con le pennellate che talvolta vengono date prima che il colore sottostante si sia asciugato completamente, e la consueta tavolozza limitata a pochi pigmenti (bianco di piombo, ocra gialla, giallorino, terra rossa, vermiglione, lacca rossa, azzurrite, nero d’ossa, nero carbone, terra bruna, ambra, verderame), dove agli incarnati è aggiunto il vermiglione per accentuare la tinta rosea e dove gli scuri sono ottenuti con ambra e bruni organici.

Va altresì rilevato che Murillo, nello svolgimento dei lavori non particolarmente prestigiosi, al posto del costoso oltremare impiegava per gli azzurri lo smaltino, un pigmento che appena applicato è simile al brillante lapislazzuli ma che col tempo tende a degradarsi, perdendo colore e ingiallendosi fino a diventare grigio-bruno (cfr. Lydon, cit. 2020, p. 46), circostanza che potrebbe essere capitata nel nostro quadro proprio con il mantello di Gesù, oggi sul bronzeo-violetto ma forse di una tinta più intensamente blu, o viola più carico, quand’era fresco di pittura.

Le analisi dei pigmenti (con XRF[12] e microprelievo[13]), oltre a rivelare che il violetto della veste è stato probabilmente prodotto con un miscuglio di indaco e lacca rossa, hanno riscontrato la compatibilità dei materiali pittorici con quelli usati nel XVII secolo, e, ciò che è più significativo, la concordanza con alcune opere autografe di Murillo, tra l’altro proprio appartenenti allo stesso lasso di tempo del nostro quadro. L’opera – che risulta prevalentemente realizzata con pigmenti bruni, neri e bianchi (terre e biacca) mentre per i rossi chiari è stato utilizzato il cinabro e per i rossi scuri la lacca rossa – presenta una stratigrafia piuttosto articolata, con gli strati di preparazione e imprimitura a base di terre e tracce di pigmenti composti da piombo e cinabro, mentre la pellicola pittorica è costitutita da uno strato più profondo di colore blu (indaco) e da uno strato intermedio più rosato. Come si accennava poc’anzi, l’aspetto più interessante è che la struttura della preparazione, con uno strato di fondo più chiaro e un’imprimitura più scura contenente granuli di colore rosse acceso, sono molto simili a dipinti eseguiti proprio in quel torno di anni dal maestro, come le tre tele realizzate per la chiesa dei Cappuccini di Siviglia, oggi conservate al Museo de Bellas Artes della città, cioè il San Giovanni Battista (1665-1667), che abbiamo già citato più sopra trattando la parentela nelle fattezze dei volti, il San Giuseppe e Gesù Bambino (1665-1667) e San Francesco che abbraccia Cristo (1668-1669).

Dalla riflettografia è emerso che alcune parti, specialmente la capigliatura e la barba, sono il risultato di un minuzioso lavoro di stesura, mentre la radiografia ha individuato sul busto delle striature che possono essere lette come tracce di “pentimenti”, uno dei quali forse relativo alla parte alta del panneggio, dove originariamente poteva essere stata dipinta la spalla nuda o parte del torace.

In definitiva, in questo Cristo - Uomo dei Dolori, possibile autoritratto, quasi uno sfogo mistico di un artista che, come ha notato Angulo Iñíguez (in AA.VV., Murillo (1617-1682), cit., 1982, p. 11), per quanto perseguitato dai lutti familiari non ha smesso di dipingere mondi di sogno abitati da angeli immersi nelle nuvole, santi in estasi e sorridenti ragazzini di strada, la lettura stilistica, i confronti iconografici, la condotta pittorica e gli indizi storici concorrono a indicare il riferimento alla mano di colui che giustamente viene considerato uno dei maggiori pittori spagnoli del XVII secolo, secondo solo a Velázquez, e nel contempo il massimo interprete della sensibilità cattolica del suo tempo, autografia peraltro testimoniata dall’antica iscrizione sul telaio e corroborata dagli esami scientifici: tutto questo dovrebbe bastare, se non per entrare ex abrupto nel catalogo di Bartolomé Esteban Murillo (ingresso conseguente a un auspicato dibattito tra gli specialisti del pittore), almeno per motivare le sue a nostro giudizio più che legittime aspirazioni a farne parte.

 

 



[1] Si veda la relazione del Laboratorio Scientifico del Museo d’Arte e Scienza, Milano, 5 giugno 2024. 

[2] “Pittore fiacco, insipido, gesuitico”, veniva bollato, come ricorda Adechiara Zevi (in “Italica: Cuadernos de trabajos de la Escuela de Historia y Arqueologia en Roma”, n. 16, 1982, p. 236), sulla scorta della stroncatura del famoso critico John Ruskin in Le pietre di Venezia (1852, ed. it., Milano, 2021, pp. 162-63).

[3] Peraltro il fraintendimento dell’opera del Sivigliano si propaga fino ai giorni nostri, se vi è chi scrive che “in Murillo il naturalismo dei borrachos si fa pietoso e ipocrita, di un’amorevolezza caramellosa che nasconde il pelo alla ricerca del consenso” – G. Resca, La spada e la misericordia, Roma, 2001, p. 150.

[4] cfr. A. Gaya Nuño, Murillo. L’opera completa, Milano, 1978, n. 55; E. Valdivieso in AA.VV., Murillo (1617-1682), catalogo della mostra (Museo del Prado, Madrid – Royal Academy, Londra), Madrid, 1982, scheda n. 61. Il solo altro autoritratto certo è quello della National Gallery di Londra, che è più tardo (1670 ca. – una replica più piccola è nella stessa città, al Wellington Museum), anche se nel 2018 è stato esposto come originale un Autoritratto della Frick Collection di New York, la cui cronologia più adeguata sembrerebbe cadere intorno al 1660. 

[5] Tra i capolavori del periodo vi sono i celebri quadri dei ragazzi di strada, tra cui il Povero negro (Londra, Dulwich Picture Gallery, 1668-1670), dove il protagonista è probabilmente Juan, il servitore di colore dell’artista, il quale non per nulla era buon conoscitore della psicologia infantile, avendo avuto nove figli, due dei quali potrebbero aver posato per la stesura dei due bellissimi fanciulli, stavolta abbigliati riccamente, dell’Adorazione dei Magi (Toledo, Ohio, Museum of Art, 1660-1665).

[6] Nella ipotizzata lettura autobiografica, l’ignoto pendant potrebbe mostrare il volto della moglie  trasfigurata in Madonna, compianta dal marito identificatosi nel Cristo sofferente.

[7] Si consultino i richiamati maggiori cataloghi critici sull’artista pubblicati da Juan Antonio Gaya Nuño nel 1978, da Diego Angulo Iñíguez nel 1981 e da Enrique Valdivieso nel 2010.

[8] Ciò che potrebbe essere accaduto per una versione di collezione privata svizzera del Sant’Antonio da Padova inginocchiato di fronte a Gesù Bambino (cfr. D. Bodart, The Zanchi Collection, Roma, 1985, n. 758), riproducente in formato minore il quadro un tempo sull’altare del convento dei Cappuccini di Siviglia e oggi al Museo de Bellas Artes.

[9] Per lo sguardo all’insù il modello potrebbe essere stato invece il San Giovanni Battista, che si trovava all’Escorial dal 1577, oppure, conosciuti tramite copie, disegni o incisioni, il Cristo risorto (Firenze, Galleria degli Uffizi) e lo stendardo con la Resurrezione di Cristo (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), quest’ultimo dal viso molto somigliante.  

[10] Sul telaio compaiono anche dei segni che possono essere interpretati come dei numeri (tra cui forse un “2”), verosimilmente relativi a un inventario. Ma alcuni di quei segni sembrerebbero comporre anche una “G” (Guillamas?), di nuovo una “Y” e una insegna (una torre) rappresentativa della nobile famiglia.

[11]  Secondo infatti Claude Esteban (introduzione a Tout l'oeuvre peint de Murillo, Paris, 1980, p. 9) “nous sommes désormais en mesure de mieux suivre sur ce point la méthode plastique de Murillo, les différentes phases de sa conception depuis les premières recherches graphiques jusqu’à l'élaboration finale du tableau. Pas une oeuvre de quelche importance à laquelle, en effet, l'artiste n’ait d’abord consacré un ou plusieurs dessins préparatoires, souvent très fouillés, avant de brosser une esquisse [...] esquisse reportée enfin sur la toile définitive avec une telle exactitude que l’on a cru longtemps reconnaître dans ces ‘maquettes’ préparatoires des copies de l’original”.

[12] Cfr. la relazione del Laboratorio di restauro e analisi Thierry Radelet, Torino, 18 novembre 2024, che ha anche effettuato le radiografie e le riflettografie.

[13] Il campione prelevato è stato esaminato da Adamantio, Torino, 9 novembre 2024.

 

Nella foto:

Bartolomé Esteban Murillo (qui attribuito), Cristo - Uomo dei Dolori (Autoritratto?), 

1664-1665 ca., olio su tela, cm 53 x 45, collezione privata.

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